TRA MILLE POLEMICHE PARTE L’AMPIO PROCESSO RIFORMATORE
Come era ampiamente prevedibile, chiamata ad affrontare un ampio processo riformatore, la politica si divide. Viene messa a dura prova l’idea che il percorso in atto debba essere realizzato attraverso un compromesso, o meglio una pesante condizionalità, del tutto strumentale per arrivare ai finanziamenti del Recovery. I cambiamenti indotti e pretesi da un soggetto politico ancora troppo esterno alla nostra Comunità come l’Europa, generano fortissime tensioni tra le forze di governo, già costrette alla coabitazione forzata. Logico che un Parlamento rappresentativo di movimenti e di partiti antisistema vada in forte affanno quando è chiamato ad assumere posizioni costruttive. Al netto di una narrazione spesso oggetto delle strumentalizzazioni delle diverse fazioni, i risultati non potranno essere che modesti e molto difficilmente porteranno alla modernizzazione del Paese. Fatale che le contraddizioni vengano fuori in ogni momento e che il livello di mediazione sempre più estremo lasci un po’ tutti insoddisfatti anche perché quelle stesse forze politiche, chiamate a varare il processo riformatore, sono attese da appuntamenti elettorali importanti (elezioni amministrative di ottobre nelle principali municipalità d’Italia, elezione del Capo dello Stato e, sempre che non vengano anticipate, le elezioni politiche degli inizi del 2023) nei quali dovranno rendere conto dei tanti impegni assunti e dei risultati conseguiti.
Facile asserire che un sistema giudiziario lento e farraginoso come il nostro riverberi anche pesanti ripercussioni economiche. Occorre pertanto puntare ad un suo snellimento, peraltro molto complesso da effettuare. I primi passaggi propongono mediazioni alquanto improbabili anche solo con riferimento alla tempistica dei processi. E già si alzano, forti, le lamentazioni non solo di eminenti giuristi ma anche di uomini espressioni del mondo della cultura, i quali temono che le forze del malaffare possano ricevere insperati vantaggi da quelle accelerazioni temporali. In un Paese che ha mostrato, da sempre, di non riuscire a chiarire alcuno degli eventi più drammatici della sua storia contemporanea, individuando i responsabili delle varie stragi, è una questione che mette addosso davvero tanta apprensione e tanta tristezza. Se il punto di approdo è quello di agevolare anche di un solo millimetro, pur se indirettamente, i clan dei boss malavitosi, allora c’è da fermarsi e riflettere. Un Paese non riparte con i condoni e le sanatorie, soprattutto se viene messa a rischio la possibilità di rendere giustizia alle vittime di quanti hanno perso la vita per difendere le istituzioni. Questo non ce lo chiede e non ce lo potrebbe chiedere né l’Europa, né qualunque altro soggetto.
In questo modo incerto di procedere, sta emergendo, in maniera sempre più evidente, come il Paese stia imboccando un pericoloso percorso involutivo, che non si discosta affatto dalle scelte liberiste del passato più recente. Pensiamo ai sistemi di reclutamento messi in atto nella Pubblica Amministrazione e nella scuola. Percorsi astrusi, azionati molto frettolosamente, con l’idea fissa di selezionare i migliori (sin qui nulla di male) ma ignorando, colpevolmente, tutto quello che nel frattempo si è prodotto: i tanti lavoratori costretti a spostarsi da un capo all’altro della Penisola con il miraggio di un posto fisso che sfuma di fronte a bizzarre prove selettive a tempo e senza appello. Quelli che non le superano, nella migliore delle ipotesi, continueranno a far funzionare il sistema, portandosi addosso tutta l’insoddisfazione del caso, in attesa di qualche moratoria. Ma il dato più paradossale è che tanti posti, anche quelli autorizzati dai plenipotenziari del MEF, rimarranno scoperti (mediamente, solo un terzo degli aspiranti accederà a quelli messi a concorso). In questo, “eccelle” la scuola, che continua ad essere il terreno di scontro che più interessa tanti liberi pensatori. Le mai troppo accettate prove Invalsi, quelle che dovrebbero certificare le abilità dei nostri studenti, sentenziano, da anni, che questi sono tra i più deboli in Europa quanto a competenze scientifiche. E, per ovviare, si mette in piedi in tutta fretta un concorso per assumere docenti nelle così dette discipline STEM (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica). A superare le solo prove scritte sono non più del 30% dei partecipanti (in alcune Regioni, si arriva al 10%). Graduare le discipline in base alla loro complessità, differenziandone i percorsi di selezione, è, già di per sé, un’azione di incerto livello culturale che apre a pericolose cesure nello stesso mondo scolastico; valutando i risultati non possiamo che concludere come si sia trattato di un’operazione a dir poco fallimentare. Sempre in ambito formativo, il Parlamento si appresta a discutere e ad approvare il progetto di riforma degli ITS (Gelmini-Aprea), gli Istituti Tecnici Superiori (ribattezzati Academy), quelli concepiti per mettere in collegamento il mondo della scuola con quello del lavoro. Se gli interventi di modifica al testo andassero in porto, potremmo concludere affermando che, adesso, anche gli imprenditori, con la benedizione del Parlamento, hanno la loro scuola. Si apprestano ad assumere la presidenza delle fondazioni ed hanno avuto mano libera nelle docenze (scompaiono i limiti quantitativi). Per insegnare sarà sufficiente un’esperienza maturata, per almeno cinque anni, nei settori riconducibili all’area tecnologica degli ITS, che surclassano il ruolo delle università. E, come sempre, il tutto si realizza con una congrua dotazione di risorse pubbliche, a partire dagli 1,5 miliardi di euro stanziati nel PNRR, per proseguire con un fondo specifico che porta in dote 68 milioni per l’anno in corso e 48 in quello successivo.
Un’altra novità riguarda le dotazioni infrastrutturali. Sino ad oggi, gli ITS avevano utilizzato le sedi e i laboratori degli istituti tecnici e professionali di Stato. In futuro, puntano ad avere dotazioni proprie. Si stabilisce un curioso parallelismo tra le scuole pubbliche – che non riescono a superare il problema atavico delle aule sovraffollate e mai al passo con la tecnologia – e questo segmento nascente (la sua origine risale al 2011), beneficiario di significative risorse, rigorosamente pubbliche, che serviranno non solo per promuovere la “cultura d’impresa” ma anche per praticarla.Analogo ragionamento può riproporsi per la transizione energetica. Un Ministro di indubbio ingegno e dalle alte competenze scientifiche, Cingolani, continua a teorizzare un modo di produrre acciaio ambientalmente sostenibile, di cui ancora, però. non si conosce la possibile dimensione prossima, atteso che il processo di decarbonizzazione, da condurre entro il 2030 secondo i dettami imposti dall’UE, non ha solo un costo economico (15 miliardi di euro), ma anche uno sociale. Alle transizioni tecnologiche andrebbero affiancate fasi parallele, quelle che riguardano i lavoratori, perché se alle innovazioni si accompagna la riduzione dei livelli occupazionali, occorrerebbe apprestare i giusti rimedi anche per i lavoratori coinvolti. Di questo, però, al di là degli anacronistici proclami di riconversione dei lavoratori siderurgici in un LSU (lavoratori socialmente utili) vagheggiati dalla Regione Puglia, non si scorge traccia. Un progetto di deindustrializzazione sul quale pesa l’assenza politica della Sinistra italiana, ormai incapace di tutelare gli interessi del mondo del lavoro e sempre più distante dal Sindacato. Affrontare un processo riformatore, un’operazione già di per sé notoriamente complessa, soprattutto quando allo stesso è affidato il compito di rilanciare il Paese, in un contesto simile, rischia di essere un’azione di facciata, uno sterile restyling. Quando il progetto diventerà più evidente per tutti, sarà inevitabile il ricorso alla piazza. Vent’anni fa, i fermenti del cambiamento furono repressi e convogliati nell’effimera stagione della democrazia diretta favorita dall’esplosione della rete. Adesso, siamo di fronte ad un nuovo tornante della nostra storia dagli esiti imprevedibili.
Turi Giancarlo (Segretario generale Uil Taranto)